Da bambina ero convinta che i soldi che la mamma prelevava, fossero un regalo illimitato della banca.
Tipo: Signora è stata brava oggi?
-Sì dai, poteva andare peggio.

-Allora tenga un soldino.

Crescendo ho imparato che occorre essere molto onesti con i propri desideri, perché le risorse si esauriscono in fretta.
Così come non posso fare shopping compulsivo per una settimana, sennò divento povera in fretta, non mi è assolutamente dato mentire a me stessa, altrimenti inizio a credere ai miei inganni e combino un casino.

Il problema è che io, agli inganni, sono abituata. Perché nessuno è riuscito a fregarmi veramente, ci ho sempre pensato da sola.
Come quando all’università conoscevo uno carino e mi affrettavo subito a dirgli di non volere nulla di serio. Che sia chiaro. Io di incastrarlo e portarmelo all’altare lo volevo eccome, ma non spifferavo mai i miei piani.
Saggia ero, ma le cazzate bisogna raccontarsele con classe, perché poi è un attimo crederci e dimenticarsi il piano iniziale.
Desideravo solo uno che mi amasse. Tenerezza a cascate, lo so. E come cazzo ho fatto a diventare una stronza con la sensibilità della mia libreria Billy? Semplice. Ho ceduto ai miei inganni.

Non volevo nulla da uno, giusto? No, ma in pratica glielo facevo credere.

E allora lui iniziava a frequentarmi perché rappresentavo una sfida, ma soprattutto non comprendevo rotture di palle bibliche che spesso le donne single riservano a quelli che le portano a cena.
La maschera della disinibizione era sulla mia faccia e fotte se non rispecchiasse la realtà.
Ovviamente il non cercare una relazione, mi portava ad andare a letto in fretta perché, sorella, se non devi aspettare per farti amare, perché aspettare?

Poi magari il lui di turno NON era proprio il Re delle Merde, magari mi riservava qualche coccola post coito (e sappiate che fingevo pure di non apprezzarle, stolta), a volte accennava a portarmi fuori con i suoi amici, magari gli permettevo perfino di restare a dormire da me.
E nel frattempo, mentre giocavo alla femme fatale, succedeva qualcosa di bizzarro.
Una frase per sbaglio declinata al plurale, una carezza, un complimento dettomi nel momento in cui avevo le difese abbassate, ed ecco, che da spietata donna indipendente, entrava in gioco la Vergine Suicida. Un pensiero mi scavava dentro, lo lasciavo entrare, percorreva le vene e si insinuava – lo stronzo – nella parte dolce di me, quella che gli uomini, il sesso casuale, e i troppi vini rossi non erano ancora riusciti a dominare. E da lì partorivo LA FRASE.
E se.
E se fosse lui quello giusto, e se gli piacessi sul serio, e se fossi felice?
Quando si vede che la propria vita potrebbe essere bellissima, non si può ignorare una cosa così. La si vorrebbe ignorare, ma non si può. Ed è talmente forte nel suo brutale impatto, che l’unica cosa che si può fare è rincorrere quel pensiero, cercare di toccarla, quella felicità.
Si smette di fingere, si sorride alla dolcezza, si cerca la novità e si cessa all’istante di essere la puttana sacrificabile agli dei, per mettere i panni di quella che una cosa seria anche sì.

Un cambio di comportamento che destabilizzava sempre il mio accompagnatore, che si trovava di punto in bianco, a dover gestire una persona che mai aveva visto prima.
E lì, nell’attimo in cui ammettevo di aver recitato una parte, il lui coraggioso fuggiva a gambe levate.
Forse non ero più un trofeo da vincere, forse invece non capiva il capovolgimento che aveva preso la storia. Forse non mi voleva così tanto. Forse tutto. Forse boh.
Ma quello che è certo è che se fossi stata chiara dall’inizio forse non sarei stata abbandonata così tante volte.

Ed invece noi donne facciamo sempre lo stesso errore. Fingiamo che una situazione ci piaccia per mettere l’altro a suo agio, per non farlo spaventare, scappare. Se spiegassimo subito che No, la trombamica non la faccio perché non mi va, forse avremmo dei finali molto felici.
Forse dovremmo imparare quella sottile linea che divide il mistero dalla finzione.

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